I nostri racconti- Le cicatrici del cuore
- La scatola dei giocattoli - Le sommet - L'altra mia metà - Fahrenheit 452 - Dallo stesso spunto diversi racconti, le storie di Adam Zebrin - L'Ira di Vesuvia - Una nuova vita Le cicatrici del cuore |
Tra quelle scalfitture incise sui banchi di una comune scuola nella periferia di Roma si nascondeva più di qualche semplice distrazione durante l’ora di chimica. La testa di Amelia era sempre altrove durante quell’ora e i suoi occhi si perdevano guardando gli abeti dalla chioma verde attraverso le grandi vetrate che occupavano la parete sinistra dell’aula; poi si concentrava sull’odore delicato che inondava la sua spaziosa classe: era fresco e acre, ricordava vagamente il profumo dell’Agapanto, il suo fiore preferito. Dopo, il suo sguardo si spostava sugli infiniti volantini appesi su tutte le pareti della 3B, e nel mentre che cercava di leggerli, le sue dita scorrevano sulla superficie ruvida del suo banco tagliuzzato; in sottofondo, si poteva udire la voce profonda del prof che stava spiegando, che pareva lontana. Ma c’era qualcos’altro oltre quei vaghi pensieri che passavano per la testa di quella comune ragazza dal sorriso dolce come il miele, che aveva la sfortuna di pensare troppo.
Infatti, per tutti gli anni del liceo, i pensieri rimanevano gli stessi: i medesimi, incessanti dubbi su quello che per lei era come il tempo: non sapeva mai se potesse arrivare un alluvione. Ella voleva solo avere le condizioni meteorologiche della sua situazione sentimentale al tempo complicata: “però il beneficio del dubbio è sempre un dono” continuava a ripetersi nella mente, interrompendo quelle riflessioni al suono della campanella squillante che segnava l’inizio dell’intervallo: correva l’anno 1980.
Chi l’avrebbe mai detto che il longevo corridoio di una scuola ordinaria potesse diventare il luogo preferito di qualcuno?
Eppure Amelia amava quel breve pezzo di tragitto che collegava la porta della sua classe alle macchinette guaste, ove si era ritagliata un angolo che fosse solo il suo per osservare silenziosamente ogni studente chiassoso che era solito passare di lì. Ma un giorno, gli usuali pensieri che le occupavano rumorosamente la mente, si ammutolirono. Una mattina, la poca luce che trafiggeva i vetri opachi del corridoio sembravano riflettere un’unica figura, in un unico punto, in un angolo non tracciato che, però, Amelia poteva vedere: rifletteva una sagoma slanciata che risiedeva nel silenzio, mani dentro tasche larghe che rivelavano un’aria di indifferenza, labbra carnose che avevano riempito di baci la persona sbagliata, occhi che celavano notti passate in bianco…; ma dietro quelle folte ciocche nere che gli cadevano dolcemente sugli zigomi scavati si nascondeva qualcos’altro, qualcosa di più profondo: una cosa più scalfita dei graffiti sui banchi di una comune classe dell’artistico e più doloroso di un graffio formatosi girando una pagina troppo in fretta: una cicatrice. Infatti, aveva una cicatrice lunga più di un centimetro all’angolo esterno dell’occhio destro color corvino e si fermava poco prima dell’inizio dell’orecchio. Un’aria lugubre gli soffiava attorno, ma anche interessante e misteriosa; -“sarà forse un angelo caduto dal cielo?”- si domandò Amelia.
Quel fanciullo senza nome iniziò a comparire più volte nella mente della ragazza dal sorriso di miele e Amelia iniziò a apparire nel campo visivo di Jack; lo spazio intorno a lui iniziò a diventare più colorato, più saporito e anche più profumato: il luogo circostante sembrava svanire ogni volta che i due incrociavano gli sguardi, a volte effimeri per la durata, ma persistenti nei ricordi.
Dopo qualche mese, gli occhi non furono gli unici a parlare e le poche parole che i due si scambiavano, col tempo, iniziarono ad assumere maggiore significato; dopo un anno, le parole non furono le uniche cose a emettere un suono e i dolci baci risuonavano nostalgici nei ricordi di tutti e due una volta tornati a casa.
Ma a casa è tutto diverso.
Un altro suono più lugubre e intimidatorio soffocava Jack una volta salito in camera sua; taglia 48 e passi forti e decisi risuonavano nel luogo vuoto e angusto di casa Morelli; bicipiti ben definiti, anelli pesanti su tutte e cinque le dita della mano e un braccialetto con degli spuntoni appuntiti circondavano il polso di quell’uomo che sulla carta è chiamato padre; i gioielli sulle sue dita erano soliti lasciare dei segni sulle guance di Jack.
La camera del ragazzo era spezzata e illuminata da una striscia di luce che proveniva dal lampione posto dinnanzi alla finestra di casa sua; era solita tagliare e tracciare un fascio di luminosità lungo il corpo di Jack; ma c’erano sere in cui non era l’unica cosa a tracciare segni sulla sua epidermide: c’erano momenti in cui la sua pelle incontrava il bracciale appuntito del padre, che, una volta, si era avvicinato un po’ troppo all’occhio del figlio, lasciando una cicatrice visibile all’occhio umano. Amelia, però, riesce a scrutare anche quelle non evidenti, quelle che si posano sul cuore.
Infatti, per tutti gli anni del liceo, i pensieri rimanevano gli stessi: i medesimi, incessanti dubbi su quello che per lei era come il tempo: non sapeva mai se potesse arrivare un alluvione. Ella voleva solo avere le condizioni meteorologiche della sua situazione sentimentale al tempo complicata: “però il beneficio del dubbio è sempre un dono” continuava a ripetersi nella mente, interrompendo quelle riflessioni al suono della campanella squillante che segnava l’inizio dell’intervallo: correva l’anno 1980.
Chi l’avrebbe mai detto che il longevo corridoio di una scuola ordinaria potesse diventare il luogo preferito di qualcuno?
Eppure Amelia amava quel breve pezzo di tragitto che collegava la porta della sua classe alle macchinette guaste, ove si era ritagliata un angolo che fosse solo il suo per osservare silenziosamente ogni studente chiassoso che era solito passare di lì. Ma un giorno, gli usuali pensieri che le occupavano rumorosamente la mente, si ammutolirono. Una mattina, la poca luce che trafiggeva i vetri opachi del corridoio sembravano riflettere un’unica figura, in un unico punto, in un angolo non tracciato che, però, Amelia poteva vedere: rifletteva una sagoma slanciata che risiedeva nel silenzio, mani dentro tasche larghe che rivelavano un’aria di indifferenza, labbra carnose che avevano riempito di baci la persona sbagliata, occhi che celavano notti passate in bianco…; ma dietro quelle folte ciocche nere che gli cadevano dolcemente sugli zigomi scavati si nascondeva qualcos’altro, qualcosa di più profondo: una cosa più scalfita dei graffiti sui banchi di una comune classe dell’artistico e più doloroso di un graffio formatosi girando una pagina troppo in fretta: una cicatrice. Infatti, aveva una cicatrice lunga più di un centimetro all’angolo esterno dell’occhio destro color corvino e si fermava poco prima dell’inizio dell’orecchio. Un’aria lugubre gli soffiava attorno, ma anche interessante e misteriosa; -“sarà forse un angelo caduto dal cielo?”- si domandò Amelia.
Quel fanciullo senza nome iniziò a comparire più volte nella mente della ragazza dal sorriso di miele e Amelia iniziò a apparire nel campo visivo di Jack; lo spazio intorno a lui iniziò a diventare più colorato, più saporito e anche più profumato: il luogo circostante sembrava svanire ogni volta che i due incrociavano gli sguardi, a volte effimeri per la durata, ma persistenti nei ricordi.
Dopo qualche mese, gli occhi non furono gli unici a parlare e le poche parole che i due si scambiavano, col tempo, iniziarono ad assumere maggiore significato; dopo un anno, le parole non furono le uniche cose a emettere un suono e i dolci baci risuonavano nostalgici nei ricordi di tutti e due una volta tornati a casa.
Ma a casa è tutto diverso.
Un altro suono più lugubre e intimidatorio soffocava Jack una volta salito in camera sua; taglia 48 e passi forti e decisi risuonavano nel luogo vuoto e angusto di casa Morelli; bicipiti ben definiti, anelli pesanti su tutte e cinque le dita della mano e un braccialetto con degli spuntoni appuntiti circondavano il polso di quell’uomo che sulla carta è chiamato padre; i gioielli sulle sue dita erano soliti lasciare dei segni sulle guance di Jack.
La camera del ragazzo era spezzata e illuminata da una striscia di luce che proveniva dal lampione posto dinnanzi alla finestra di casa sua; era solita tagliare e tracciare un fascio di luminosità lungo il corpo di Jack; ma c’erano sere in cui non era l’unica cosa a tracciare segni sulla sua epidermide: c’erano momenti in cui la sua pelle incontrava il bracciale appuntito del padre, che, una volta, si era avvicinato un po’ troppo all’occhio del figlio, lasciando una cicatrice visibile all’occhio umano. Amelia, però, riesce a scrutare anche quelle non evidenti, quelle che si posano sul cuore.
La scatola dei giocattoli
La luce fioca entrava da uno spiraglio minuscolo del tetto che non somigliava minimamente a quello della mia cameretta; non riuscivo a vedere oltre la punta del mio naso, poiché il buio avvolgeva completamente ciò che sembrava essere un deposito di vecchi giocattoli; alla mia destra una piramide di soldatini sembrava non finire mai, mentre tutto attorno a me c’erano peluche a forma di animaletti. Rammentai di averne avuto uno anch’io durante la mia infanzia; era a forma di orso, lo avevo comprato ad un mercatino di Natale con mio fratello all’età di quattro anni per poi dargli il nome di Thommy, proprio come quello dell’orso che guardavo la sempre in televisione la sera tardi quando ormai tutti dormivano.Quando ero cresciuta, avevo subito le prese in giro delle mie compagne di classe sulla mia infantilità; si lamentavano della mia risata, del mio viso e della mia voce da bambina e piano piano mi avevano cambiato nella persona che volevano loro, facendomi perdere i tratti da bambina e facendomi posare Thommy in un angolo remoto della mia cameretta.
Continuai a girarmi in tondo notando come avevo acquisito la stessa statura dei giocattoli, ma proprio quando smossi il primo passo verso l’ignoto tutto attorno a me parve essere abbracciato da un fascio di luce argentea che animò l’ambiente attorno. I giochi presero vita e i soldatini si misero in schiera proprio come un vero e proprio esercito lungo la parete destra della scatola, che era ornata dagli sticker che avevo sempre desiderato da bambina per la loro particolarità di illuminarsi al buio; sulla parte sinistra una luce estranea si creava sotto le mie iridi bluastre come le acque del lago che si erano create e dove i pupazzetti a forma di cigno avevano preso vita e nuotavano allegramente lì vicino con gli anatroccoli.
Sembravano tutti così felici, sembrava che portassero l’allegria e le spensieratezze che avevo perso negli anni.
Mi si avvicinò una piccola fatina, simile a quella di Trilli nella favola di Peter Pan e con la sua manina delicata mi spinse in quella straordinaria baraonda. Attraversai pianure e mari in compagnia della creaturina, imbattendomi nei sette nani di Biancaneve e nel Cappellaio matto che mi regalarono un nuovo sorriso e mi ridonarono la risata di un tempo assieme alla mia spensieratezza da troppo tempo perduta.
Riacquisii la normalità che mi apparteneva e presi il coraggio di capire che la mia infantilità era una raffinatezza della mia anima e non uno squarcio irreparabile. Così, dopo aver cucito ogni mio buco nero fatto di paura e delusione, aprii la scatola e fui me stessa.
Continuai a girarmi in tondo notando come avevo acquisito la stessa statura dei giocattoli, ma proprio quando smossi il primo passo verso l’ignoto tutto attorno a me parve essere abbracciato da un fascio di luce argentea che animò l’ambiente attorno. I giochi presero vita e i soldatini si misero in schiera proprio come un vero e proprio esercito lungo la parete destra della scatola, che era ornata dagli sticker che avevo sempre desiderato da bambina per la loro particolarità di illuminarsi al buio; sulla parte sinistra una luce estranea si creava sotto le mie iridi bluastre come le acque del lago che si erano create e dove i pupazzetti a forma di cigno avevano preso vita e nuotavano allegramente lì vicino con gli anatroccoli.
Sembravano tutti così felici, sembrava che portassero l’allegria e le spensieratezze che avevo perso negli anni.
Mi si avvicinò una piccola fatina, simile a quella di Trilli nella favola di Peter Pan e con la sua manina delicata mi spinse in quella straordinaria baraonda. Attraversai pianure e mari in compagnia della creaturina, imbattendomi nei sette nani di Biancaneve e nel Cappellaio matto che mi regalarono un nuovo sorriso e mi ridonarono la risata di un tempo assieme alla mia spensieratezza da troppo tempo perduta.
Riacquisii la normalità che mi apparteneva e presi il coraggio di capire che la mia infantilità era una raffinatezza della mia anima e non uno squarcio irreparabile. Così, dopo aver cucito ogni mio buco nero fatto di paura e delusione, aprii la scatola e fui me stessa.
Le sommet
Una volta arrivati in cima al Col Pillonet, ecco che tutta la stanchezza della scalata sparisce alla vista di quel meraviglioso panorama; gli occhi socchiusi dalla fatica si dilatano e l’animo spento si accende improvvisamente, come un foglio di giornale che prende fuoco. Ma la sorpresa non finisce qui; girando la testa ecco che ci compare davanti il meraviglioso rifugio alpino “Le sommet”, che tradotto significa “La vetta”.
Avvicinandoci, veniamo subito accolti da una decina di focolari ardenti che riscaldano le tavole all’aperto, popolate da famiglie, amici, coppie allegre, alpinisti esperti e quelli alle prime scalate. Se si vogliono fare due chiacchere il proprietario è sempre fuori a giocare a carte; è una persona calorosa che ti fa sentire a casa in qualsiasi momento. Entrando veniamo rapiti dal profumo avvolgente che proviene dalla cucina, sprigionato da Annette, cuoca fedele alle tradizioni culinarie valdostane e molto estroversa.
Si incomincia ad intravedere la struttura vera e propria del rifugio, realizzata interamente in pietra, ad eccezione del tetto, in legno di abete rosso.
Poco dopo la soglia veniamo accolti da un piccolo salotto, nel quale si trova un camino sempre scoppiettante e fischiettante, sormontato da due grandi corna di cervo e circondato da una marea di stivali.
Imboccando un piccolo corridoio e salendo per scale pericolanti che scricchiolano ad ogni passo, giungiamo finalmente alle camere da letto; il pavimento di legno è perennemente ricoperto da sacchi a pelo dai più grandi fino ai più piccoli; in alcuni punti il soffitto è talmente basso che bisogna piegarsi per evitare di picchiare la testa; le finestre sono sempre spalancate e lasciano entrare una leggera brezza, accompagnata dal cinguettio degli uccellini e dal fruscio delle foglie.
Intorno a tutta la struttura sono appesi i panni degli escursionisti e di tutti coloro che sono riusciti a scalare il Col Pillonet ora si possono godere un meritato riposo, felici di aver raggiunto la meta.
Avvicinandoci, veniamo subito accolti da una decina di focolari ardenti che riscaldano le tavole all’aperto, popolate da famiglie, amici, coppie allegre, alpinisti esperti e quelli alle prime scalate. Se si vogliono fare due chiacchere il proprietario è sempre fuori a giocare a carte; è una persona calorosa che ti fa sentire a casa in qualsiasi momento. Entrando veniamo rapiti dal profumo avvolgente che proviene dalla cucina, sprigionato da Annette, cuoca fedele alle tradizioni culinarie valdostane e molto estroversa.
Si incomincia ad intravedere la struttura vera e propria del rifugio, realizzata interamente in pietra, ad eccezione del tetto, in legno di abete rosso.
Poco dopo la soglia veniamo accolti da un piccolo salotto, nel quale si trova un camino sempre scoppiettante e fischiettante, sormontato da due grandi corna di cervo e circondato da una marea di stivali.
Imboccando un piccolo corridoio e salendo per scale pericolanti che scricchiolano ad ogni passo, giungiamo finalmente alle camere da letto; il pavimento di legno è perennemente ricoperto da sacchi a pelo dai più grandi fino ai più piccoli; in alcuni punti il soffitto è talmente basso che bisogna piegarsi per evitare di picchiare la testa; le finestre sono sempre spalancate e lasciano entrare una leggera brezza, accompagnata dal cinguettio degli uccellini e dal fruscio delle foglie.
Intorno a tutta la struttura sono appesi i panni degli escursionisti e di tutti coloro che sono riusciti a scalare il Col Pillonet ora si possono godere un meritato riposo, felici di aver raggiunto la meta.
L'altra mia metà
Da un immagine un racconto
Da una settimana tutto era diverso. Del resto, non poteva che essere così. Erano ormai trascorsi una manciata di giorni dalla sera fatale, eppure mi sembrava fosse passato solo un istante. All’apparenza la mia monotona vita non era cambiata in nulla: come al solito, quella mattina mi ero alzata presto, mi ero preparata per aprire il piccolo ristorante di famiglia, la cui proprietà ormai da generazioni si trasmetteva di padre in figlio, e sarei dovuta rimanere alla cassa per l’intera giornata, facendo una sola breve pausa a mezzogiorno. Erano mesi che compivo quelle stesse identiche azioni, eppure quel giorno mi erano sembrate differenti: il ristorante mi pareva diverso, l’atmosfera che respiravo lì dentro mi soffocava, perfino la cameriera, ormai nostra fedele dipendente da molti anni, sembrava cambiata. Ma non riuscivo ancora a capire in cosa esattamente. O forse sì: ero cambiata io. La mia anima gemella, il mio compagno di vita, colui che mi aveva accompagnato fino a quel momento con passione, ammirazione, rispetto e fedeltà era scomparso, ucciso da un mostro che ormai da anni si covava dentro, contro il quale i medici non avevano saputo fare nulla, se non offrirmi mestamente vacue parole di dispiacere. Anch’esse erano servite a ben poco. Man mano, lo vedevo sempre più stanco e provato; gli occhi, che da anni incrociavano i miei con una scintilla di vivacità nonostante l’età ormai avanzata, come un bambino mai cresciuto del tutto, erano diventati spenti pozzi senza fondo. Lentamente, la malattia si era impossessata di lui. Fino a che, una settimana prima, non si era arreso a quella impari battaglia che da anni portava avanti, come un fiore che si spezza per un continuo vento troppo forte. Da allora mi riaffioravano violentemente alla mente ricordi di ciò che eravamo stati insieme: quella mattina era una di quei momenti. Cadevo in un turbine di dolore, nostalgia e rimpianto a cui a stento riuscivo a porre fine, riscuotendomi: il locale che mi era sempre sembrato un caldo e accogliente rifugio, ormai mi era diventato sconosciuto, gli stessi gesti quotidiani della cameriera mi davano fastidio e non
li riconoscevo più. Mi pareva che il mondo stesse andando avanti, senza rendersi conto che io ero rimasta ancora con lui. Non volevo accettare il fatto di continuare a vivere la stessa vita da sola. Abbassai lo sguardo nel tentativo di mascherare le lacrime cocenti che mi stavano iniziando a scorrere e, solo a quel punto, mi accorsi di una coppia di clienti seduta a un tavolo accanto a me: senza neanche rendermene conto iniziai a osservarli. L’uomo sembrava abbastanza slanciato e snello, la signora era più possente e florida nelle sue forme. L’uno pareva già avanti con gli anni: l’incipiente calvizie, i folti baffi non più neri come la pece e le spalle leggermente ricurve, come se stessero sopportando il peso degli anni vissuti, erano particolari che non sfuggivano al mio occhio attento. Entrambi avevano un’aria elegante e ricercata, sicuramente facevano parte dell’alta società; lui indossava un completo nero e una camicia inamidata bianca con una cravatta abilmente stretta, mentre lei portava un fine abito blu scuro e un cappello abbinato dello stesso tessuto ricamato, che sembrava molto liscio e morbido al tatto. Dalle mani di entrambi si poteva facilmente intuire che non erano abituati al lavoro manuale e, in effetti, in quel momento mi sembrava stessero discutendo di quale opera andare a vedere a teatro. Udivo le loro raffinate voci utilizzare un linguaggio che era ben lungi dal mio, percepivo che erano colti e istruiti, o per lo meno sicuramente più di me, che sapevo solo leggere, scrivere e far di conto. Osservandoli, le mie lacrime si interruppero, e, per un attimo, invidiai la loro vita all’apparenza ideale, ma presto capii che non sarei mai voluta essere nei panni della signora. Mai avrei scambiato la mia vita semplice, ma densa di emozioni, con la sua così algida e freddamente perfetta. Fu così che finalmente capii che, andando avanti e continuando a vivere la mia vita, non avrei dimenticato l’altra mia metà ormai perduta, ma, anzi, questa avrebbe continuato a vivere dentro e con me.
Da una settimana tutto era diverso. Del resto, non poteva che essere così. Erano ormai trascorsi una manciata di giorni dalla sera fatale, eppure mi sembrava fosse passato solo un istante. All’apparenza la mia monotona vita non era cambiata in nulla: come al solito, quella mattina mi ero alzata presto, mi ero preparata per aprire il piccolo ristorante di famiglia, la cui proprietà ormai da generazioni si trasmetteva di padre in figlio, e sarei dovuta rimanere alla cassa per l’intera giornata, facendo una sola breve pausa a mezzogiorno. Erano mesi che compivo quelle stesse identiche azioni, eppure quel giorno mi erano sembrate differenti: il ristorante mi pareva diverso, l’atmosfera che respiravo lì dentro mi soffocava, perfino la cameriera, ormai nostra fedele dipendente da molti anni, sembrava cambiata. Ma non riuscivo ancora a capire in cosa esattamente. O forse sì: ero cambiata io. La mia anima gemella, il mio compagno di vita, colui che mi aveva accompagnato fino a quel momento con passione, ammirazione, rispetto e fedeltà era scomparso, ucciso da un mostro che ormai da anni si covava dentro, contro il quale i medici non avevano saputo fare nulla, se non offrirmi mestamente vacue parole di dispiacere. Anch’esse erano servite a ben poco. Man mano, lo vedevo sempre più stanco e provato; gli occhi, che da anni incrociavano i miei con una scintilla di vivacità nonostante l’età ormai avanzata, come un bambino mai cresciuto del tutto, erano diventati spenti pozzi senza fondo. Lentamente, la malattia si era impossessata di lui. Fino a che, una settimana prima, non si era arreso a quella impari battaglia che da anni portava avanti, come un fiore che si spezza per un continuo vento troppo forte. Da allora mi riaffioravano violentemente alla mente ricordi di ciò che eravamo stati insieme: quella mattina era una di quei momenti. Cadevo in un turbine di dolore, nostalgia e rimpianto a cui a stento riuscivo a porre fine, riscuotendomi: il locale che mi era sempre sembrato un caldo e accogliente rifugio, ormai mi era diventato sconosciuto, gli stessi gesti quotidiani della cameriera mi davano fastidio e non
li riconoscevo più. Mi pareva che il mondo stesse andando avanti, senza rendersi conto che io ero rimasta ancora con lui. Non volevo accettare il fatto di continuare a vivere la stessa vita da sola. Abbassai lo sguardo nel tentativo di mascherare le lacrime cocenti che mi stavano iniziando a scorrere e, solo a quel punto, mi accorsi di una coppia di clienti seduta a un tavolo accanto a me: senza neanche rendermene conto iniziai a osservarli. L’uomo sembrava abbastanza slanciato e snello, la signora era più possente e florida nelle sue forme. L’uno pareva già avanti con gli anni: l’incipiente calvizie, i folti baffi non più neri come la pece e le spalle leggermente ricurve, come se stessero sopportando il peso degli anni vissuti, erano particolari che non sfuggivano al mio occhio attento. Entrambi avevano un’aria elegante e ricercata, sicuramente facevano parte dell’alta società; lui indossava un completo nero e una camicia inamidata bianca con una cravatta abilmente stretta, mentre lei portava un fine abito blu scuro e un cappello abbinato dello stesso tessuto ricamato, che sembrava molto liscio e morbido al tatto. Dalle mani di entrambi si poteva facilmente intuire che non erano abituati al lavoro manuale e, in effetti, in quel momento mi sembrava stessero discutendo di quale opera andare a vedere a teatro. Udivo le loro raffinate voci utilizzare un linguaggio che era ben lungi dal mio, percepivo che erano colti e istruiti, o per lo meno sicuramente più di me, che sapevo solo leggere, scrivere e far di conto. Osservandoli, le mie lacrime si interruppero, e, per un attimo, invidiai la loro vita all’apparenza ideale, ma presto capii che non sarei mai voluta essere nei panni della signora. Mai avrei scambiato la mia vita semplice, ma densa di emozioni, con la sua così algida e freddamente perfetta. Fu così che finalmente capii che, andando avanti e continuando a vivere la mia vita, non avrei dimenticato l’altra mia metà ormai perduta, ma, anzi, questa avrebbe continuato a vivere dentro e con me.
Fahrenheit 452
Le fiamme corrodevano non solo i pilastri della casa, ma anche i pilastri del suo cuore. La caserma dei pompieri “Dalton Nevermore” era una delle caserme più disciplinate della Louisiana, famosa per il suo tempismo e per la sua professionalità.
Era diretta dal colonnello dell’esercito Richard Rainel, un uomo di bell’aspetto, sulla trentina, con le spalle larghe e il corpo muscoloso. Aveva un viso spigoloso, sempre pallido, capelli castani, minuscoli occhi verdi, chiari e pensosi, da cui si poteva intravedere il suo lato dolce e generoso. Per raggiungere quel grado militare aveva dovuto frequentare anni e anni di Accademia militare a Boston, da cui poi si distinse dagli altri per la sua innata determinazione.
Da anni correvano tra la gente pettegolezzi da chiesa, ma nessuno in realtà era mai venuto a conoscenza della vera storia dell’uomo.
Non sapevano nulla dell'immenso dolore che aveva provato all’età di sette anni, dopo la morte dei genitori nel mezzo di un incendio. Non conoscevano l’infanzia travagliata che ogni giorno gli si presentava in sogno come un cortometraggio dell’orrore.
Per quanto potesse essere un idolo per la città, nessuno aveva mai svelato il mistero del passato di Richard.
Nella notte tra il nove e il dieci ottobre del 1997 Richard era presente,come sempre, durante il turno di notte. Stava sulla sua scrivania a firmare una pila infinita di fogli, sperando che piano a piano si notasse la diminuzione. A interrompere l’incessante chiacchiericcio dei colleghi fu l’improvviso squillo del telefono che trasmise un senso di allerta all’intero gruppo: chi mai avrebbe potuto chiamare i pompieri a quell'ora della notte?
Rainel fece cenno a uno dei presenti di rispondere, e così fu.
Dopo pochi e intensi secondi di telefonata, il collega premette immediatamente l’allarme di sicurezza, il quale mise in movimento tutti quanti.
Dopo solo pochi minuti sfrecciavano già pericolosamente per le strade, accompagnati dal fastidioso suono della sirena. Girarono una curva, poi l’altra e un’altra ancora, fino a quando giunsero al terribile spettacolo.
Era una villa in stile classico, sostenuta da solidi pilastri ionici in legno d’abete rosso, divorata dalla forte morsa del fuoco. I gradini dell’ingresso erano ormai svaniti, le finestre esplose e le pareti sfumavano dal bianco al nero. I fiori si erano carbonizzati e un denso fumo circondava la struttura, come delle possenti mura invalicabili.
Tutti scesero attrezzati, muniti di truppa di salvataggio e pompe da cui rifornirsi d’acqua. Mentre le operazioni avevano luogo, il pianto acuto di un bambino sferzò l’aria gelida e lacerò i pensieri di Richard. Il colonnello si ritrovò in un puro stato di trance, sentiva un dolore acuto invadergli le membra.
Quelle urla non erano urla nuove, erano un suono che si riproponeva da tempi immemori, una melodia macabra che lo perseguitava da molti anni, forse troppi. Si accasciò goffamente a terra e si lasciò guidare dai suoi pensieri.
Riaprì gli occhi e si ritrovò in un luogo differente, ma molto familiare: era la sua cameretta d’infanzia, identica a com’era, ma con un dettaglio ambiguo, c’era un caldo torrido. Si gettò fuori dal letto per aprire la finestra, ma quest’ultima esplose prima che lui potesse raggiungerla, conficcandogli un coccio di vetro sulla guancia. Non era possibile, stava rivivendo quella notte! Un’enorme lingua di fuoco si catapultò nella stanza intrappolandolo come un prigioniero, ma miracolosamente le fiamme avevano formato un piccolo corridoio verso la porta, da cui uscì. Si lanciò giù dalle vecchie scale lignee e cominciò a chiedere aiuto.
Dopo qualche secondo la porta principale venne sfondata e il bambino fu soccorso, ma all'esterno non c’era nessuna traccia dei genitori.
Li chiamò a squarciagola: “Mamma! Papà!” ma non ricevette alcuna risposta.
Continuò così per giorni, fino a quando non gli fu comunicata la loro dolorosa morte.
Era diretta dal colonnello dell’esercito Richard Rainel, un uomo di bell’aspetto, sulla trentina, con le spalle larghe e il corpo muscoloso. Aveva un viso spigoloso, sempre pallido, capelli castani, minuscoli occhi verdi, chiari e pensosi, da cui si poteva intravedere il suo lato dolce e generoso. Per raggiungere quel grado militare aveva dovuto frequentare anni e anni di Accademia militare a Boston, da cui poi si distinse dagli altri per la sua innata determinazione.
Da anni correvano tra la gente pettegolezzi da chiesa, ma nessuno in realtà era mai venuto a conoscenza della vera storia dell’uomo.
Non sapevano nulla dell'immenso dolore che aveva provato all’età di sette anni, dopo la morte dei genitori nel mezzo di un incendio. Non conoscevano l’infanzia travagliata che ogni giorno gli si presentava in sogno come un cortometraggio dell’orrore.
Per quanto potesse essere un idolo per la città, nessuno aveva mai svelato il mistero del passato di Richard.
Nella notte tra il nove e il dieci ottobre del 1997 Richard era presente,come sempre, durante il turno di notte. Stava sulla sua scrivania a firmare una pila infinita di fogli, sperando che piano a piano si notasse la diminuzione. A interrompere l’incessante chiacchiericcio dei colleghi fu l’improvviso squillo del telefono che trasmise un senso di allerta all’intero gruppo: chi mai avrebbe potuto chiamare i pompieri a quell'ora della notte?
Rainel fece cenno a uno dei presenti di rispondere, e così fu.
Dopo pochi e intensi secondi di telefonata, il collega premette immediatamente l’allarme di sicurezza, il quale mise in movimento tutti quanti.
Dopo solo pochi minuti sfrecciavano già pericolosamente per le strade, accompagnati dal fastidioso suono della sirena. Girarono una curva, poi l’altra e un’altra ancora, fino a quando giunsero al terribile spettacolo.
Era una villa in stile classico, sostenuta da solidi pilastri ionici in legno d’abete rosso, divorata dalla forte morsa del fuoco. I gradini dell’ingresso erano ormai svaniti, le finestre esplose e le pareti sfumavano dal bianco al nero. I fiori si erano carbonizzati e un denso fumo circondava la struttura, come delle possenti mura invalicabili.
Tutti scesero attrezzati, muniti di truppa di salvataggio e pompe da cui rifornirsi d’acqua. Mentre le operazioni avevano luogo, il pianto acuto di un bambino sferzò l’aria gelida e lacerò i pensieri di Richard. Il colonnello si ritrovò in un puro stato di trance, sentiva un dolore acuto invadergli le membra.
Quelle urla non erano urla nuove, erano un suono che si riproponeva da tempi immemori, una melodia macabra che lo perseguitava da molti anni, forse troppi. Si accasciò goffamente a terra e si lasciò guidare dai suoi pensieri.
Riaprì gli occhi e si ritrovò in un luogo differente, ma molto familiare: era la sua cameretta d’infanzia, identica a com’era, ma con un dettaglio ambiguo, c’era un caldo torrido. Si gettò fuori dal letto per aprire la finestra, ma quest’ultima esplose prima che lui potesse raggiungerla, conficcandogli un coccio di vetro sulla guancia. Non era possibile, stava rivivendo quella notte! Un’enorme lingua di fuoco si catapultò nella stanza intrappolandolo come un prigioniero, ma miracolosamente le fiamme avevano formato un piccolo corridoio verso la porta, da cui uscì. Si lanciò giù dalle vecchie scale lignee e cominciò a chiedere aiuto.
Dopo qualche secondo la porta principale venne sfondata e il bambino fu soccorso, ma all'esterno non c’era nessuna traccia dei genitori.
Li chiamò a squarciagola: “Mamma! Papà!” ma non ricevette alcuna risposta.
Continuò così per giorni, fino a quando non gli fu comunicata la loro dolorosa morte.
Dallo stesso spunto diversi racconti
Si chiamava Adam Zebrin, ma tutti lo conoscevano col nome di Zebra.
1.I vicini sentivano forti rumori; infatti fin dal mattina presto una famiglia veneta stava traslocando: si erano trasferiti a Torino per motivi lavorativi. Dopo un’intera giornata a sistemare i mobili della casa Adam, il figlio degli acquirenti salì al piano di sopra e trovò la sua nuova camera: le pareti erano dipinte di bianco e azzurro, a destra c’era un letto a castello, nel caso Adam avesse voluto invitare a dormire qualche suo amico; il ragazzo si diresse verso la scrivania in legno chiaro, di fianco ad essa si trovava l’armadio. In un cassetto Adam trovò una cassa per la musica e si affrettò ad accenderla: la stanza improvvisamente fu inondata da un forte rumore; suo padre corse immediatamente nella camera del figlio e inventò una scusa per farlo scendere al piano di sotto. Il giorno seguente Adam non sentì la sveglia e si presentò alla nuova classe in ritardo. Nonostante questo, dopo tre mesi il nuovo arrivato era conosciuto da molti: si chiamava Adam Zebrin, ma tutti lo conoscevano col nome di Zebra sia a causa del suo cognome sia a causa del suo sport: giocava a calcio nelle giovanili della Juventus. Era alto, non molto muscoloso, riconoscibile a causa dei suoi capelli biondi e degli occhi azzurri. Era cresciuto con i suoi nonni, perciò possedeva uno strano accento veneto di cui non si vantava. Anche se aveva talento da vendere, rimaneva umile e si credeva allo stesso livello degli altri; veniva considerato degno di fiducia e di ammirazione, parlava con tutti per conoscere l’opinione altrui, non si faceva distrarre facilmente: un buon ragazzo sa essere lucido sia nei momenti facili sia nei momenti difficili. Ogni occasione che gli si presentava la coglieva e faceva di tutto per portarla a termine. Così, dopo diversi problemi societari, la squadra più tifata d’Italia tornò in Serie A, ma a causa dello scandalo Calciopoli la dirigenza scelse di far esordire qualche giovane tra cui anche Adam. Un pomeriggio di Aprile 2008, appena maggiorenne, verso la fine del derby di Torino tra i bianconeri e i granata Adam esordì in massima categoria. Al termine del match il giovane fu intervistato da diverse reti televisive. Verso tarda serata tornò nella casa che lo aveva ospitato, rimasta uguale a quella in cui era entrato diversi anni prima.
2.La sera era ormai calata e con essa il sole era scomparso dal cielo, per lasciare il suo posto alla luna. Adam Zebrin si stava dirigendo verso la sua casa nella periferia di New York, precisamente in un quartiere dove era conosciuto da tutti. Mentre camminava per strada, le persone che lo incontravano lo salutavano col nome di Zebra e lui ricambiava con un cenno malinconico. Quello non era un periodo molto roseo per l’uomo; viveva da solo e lavorava in una fabbrica di Brooklyn per quattordici ore al giorno, ne usciva sempre sfinito e triste; come se non bastasse avvertiva un forte senso di solitudine. Arrivato sulla soglia di casa si fermò per cercarne le chiavi, quando arrivò una Cadillac nera che si fermò vicino a lui; da essa scesero due uomini in giacca e cravatta con tanto di cilindro nero che gli dissero: <<Zebra, anche se hai chiuso l’attività devi darci lo stesso i soldi che ci devi, entro domani, o potresti pentirtene>>.Quindi rimontarono in autovettura e se ne andarono. Era disperato, non sapeva più cosa fare, ma per capire cosa gli fosse successo veramente occorrerà tornare indietro di qualche mese. L’uomo aveva aperto un bellissimo negozio da fioraio, ma quando gli affari stavano andando per il meglio arrivarono degli uomini che lo minacciarono si bruciare il negozio se non avesse pagato mensilmente una somma. Per un po’ il malcapitato poté pagare, ma in seguito, per delle complicazioni, fu costretto a chiudere l’attività. D’altronde non era l’unico ad avere questo tipo di difficoltà, dopo la guerra molti commercianti come lui si trovavano nelle stesse condizioni e purtroppo dovette pagare degli arretrati, motivo per cui i creditori lo tormentarono a lungo. Il giorno dopo Zebra si svegliò, ancora pallido e scosso per le parole dei soverchiatori a cui avrebbe dovuto dare dei soldi che non aveva. Uscito di casa, vide molte persone in festa. Ovviamente Adam si domandò l’origine, a lui ignota, della felicità di tutta quella gente e posta la domanda a una donna che tutta gioiosa passava di lì, la risposta fu che grazie ad Adam era stato arrestato il boss mafioso con cui aveva il debito: un poliziotto aveva seguito i due uomini che avevano minacciato Adam e da essi era riuscito a risalire al loro capo, che era stato immediatamente assicurato alla giustizia.
3.Era buio ma riuscivo comunque a sentire l’odore di ferro che emanava dal sangue, dal corpo senza vita di Zebra. Non sapevo che fare, ero come paralizzata, sapevo che sarebbe successo.
È una splendida giornata di maggio, il sole splende e il suo colore si amalgama perfettamente con l’azzurro del cielo; ci saranno sì e no ventitré gradi -penso tra me e me- fa caldo, ma cerco di non pensarci. Sono appena uscita di casa per andare a Cavington (un paesino vicino a casa mia, sempre nei dintorni della California), raggiungibile a piedi.
Mentre mi incammino, inizio già a pensare a dove potrei pranzare; tiro fuori il telefono dalla borsa e vedo un messaggio da parte di Zebra: “Ti devo parlare, è urgente!”
Si chiamava Adam Zebrin, ma tutti lo conoscevamo col nome di Zebra. Adam era il direttore della Highflower, un’azienda agricola molto importante. La sua più grande rivale era l’Agriteck, un’altra azienda agricola che si era sempre mostrata molto invidiosa di Adam e della sua fama.
Zebra era un uomo modestamente alto, con il viso pallido, ma con una leggera nota di rosa sulle guance; aveva occhi verdi luminosissimi e un sorriso che rallegrava l’anima. Un uomo tenero, dolce, ma soprattutto altruista e che riusciva a farsi valere e a farsi rispettare anche con un semplice cenno del capo; quindi, in sintesi, un uomo di tutto rispetto.
Io sono stata per tanti anni sua cliente, per così tanti anni che siamo diventati amici e confidenti. Risposi al messaggio; ci incontrammo in un ristorante caldo e accogliente. Adam arrivò leggermente in ritardo, cosa non assolutamente da lui; lo vidi nervoso, guardava attentamente tutto il ristorante per assicurarsi che nessuno riuscisse a sentirci. L’Agriteck gli aveva rubato un’idea e l’aveva lanciata in commercio prima di lui. Zebra e tutto il suo team avevano inventato un fertilizzante che permettesse la crescita accelerata di piante e arbusti. Il prodotto doveva uscire sul mercato dopo poche settimane, ma l’Agriteck si era impossessata, in qualche modo, dei bozzetti del fertilizzante, così precedendo l’azienda rivale nel lancio del prodotto. Zebra era distrutto e io non sapevo come consolarlo; dopo aver finito di bere il suo bicchiere d’acqua riprese a parlare rapidamente: l’Agriteck e il suo direttore, Walter, lo avevano minacciato negando le loro responsabilità e costringendolo a non dire niente a nessuno. Pagammo e andammo via.
Quella fu l’ultima volta che lo vidi. Passarono interi giorni senza sue notizie, quindi iniziai a preoccuparmi e decisi che quella stessa sera di maggio sarei andata a casa sua per fargli visita.
La porta era semi aperta, così entrai senza bussare. Era tutto buio e non riuscivo a trovare il tasto per accendere la luce; perlustrai cautamente la casa fino a quando sentì odore di sangue: c’era un corpo accanto a me, non esitai neanche un secondo, mi avvicinai alla bocca dell’ignoto per controllare se respirasse ancora; era morto. Mi resi immediatamente conto che era Zebra, il mio amico di tutta una vita. Il mio cuore si fermò per un istante. Era stato Walter? Cosa aveva rivelato Zebra sul furto del fertilizzante e chi erano i complici?
1.I vicini sentivano forti rumori; infatti fin dal mattina presto una famiglia veneta stava traslocando: si erano trasferiti a Torino per motivi lavorativi. Dopo un’intera giornata a sistemare i mobili della casa Adam, il figlio degli acquirenti salì al piano di sopra e trovò la sua nuova camera: le pareti erano dipinte di bianco e azzurro, a destra c’era un letto a castello, nel caso Adam avesse voluto invitare a dormire qualche suo amico; il ragazzo si diresse verso la scrivania in legno chiaro, di fianco ad essa si trovava l’armadio. In un cassetto Adam trovò una cassa per la musica e si affrettò ad accenderla: la stanza improvvisamente fu inondata da un forte rumore; suo padre corse immediatamente nella camera del figlio e inventò una scusa per farlo scendere al piano di sotto. Il giorno seguente Adam non sentì la sveglia e si presentò alla nuova classe in ritardo. Nonostante questo, dopo tre mesi il nuovo arrivato era conosciuto da molti: si chiamava Adam Zebrin, ma tutti lo conoscevano col nome di Zebra sia a causa del suo cognome sia a causa del suo sport: giocava a calcio nelle giovanili della Juventus. Era alto, non molto muscoloso, riconoscibile a causa dei suoi capelli biondi e degli occhi azzurri. Era cresciuto con i suoi nonni, perciò possedeva uno strano accento veneto di cui non si vantava. Anche se aveva talento da vendere, rimaneva umile e si credeva allo stesso livello degli altri; veniva considerato degno di fiducia e di ammirazione, parlava con tutti per conoscere l’opinione altrui, non si faceva distrarre facilmente: un buon ragazzo sa essere lucido sia nei momenti facili sia nei momenti difficili. Ogni occasione che gli si presentava la coglieva e faceva di tutto per portarla a termine. Così, dopo diversi problemi societari, la squadra più tifata d’Italia tornò in Serie A, ma a causa dello scandalo Calciopoli la dirigenza scelse di far esordire qualche giovane tra cui anche Adam. Un pomeriggio di Aprile 2008, appena maggiorenne, verso la fine del derby di Torino tra i bianconeri e i granata Adam esordì in massima categoria. Al termine del match il giovane fu intervistato da diverse reti televisive. Verso tarda serata tornò nella casa che lo aveva ospitato, rimasta uguale a quella in cui era entrato diversi anni prima.
2.La sera era ormai calata e con essa il sole era scomparso dal cielo, per lasciare il suo posto alla luna. Adam Zebrin si stava dirigendo verso la sua casa nella periferia di New York, precisamente in un quartiere dove era conosciuto da tutti. Mentre camminava per strada, le persone che lo incontravano lo salutavano col nome di Zebra e lui ricambiava con un cenno malinconico. Quello non era un periodo molto roseo per l’uomo; viveva da solo e lavorava in una fabbrica di Brooklyn per quattordici ore al giorno, ne usciva sempre sfinito e triste; come se non bastasse avvertiva un forte senso di solitudine. Arrivato sulla soglia di casa si fermò per cercarne le chiavi, quando arrivò una Cadillac nera che si fermò vicino a lui; da essa scesero due uomini in giacca e cravatta con tanto di cilindro nero che gli dissero: <<Zebra, anche se hai chiuso l’attività devi darci lo stesso i soldi che ci devi, entro domani, o potresti pentirtene>>.Quindi rimontarono in autovettura e se ne andarono. Era disperato, non sapeva più cosa fare, ma per capire cosa gli fosse successo veramente occorrerà tornare indietro di qualche mese. L’uomo aveva aperto un bellissimo negozio da fioraio, ma quando gli affari stavano andando per il meglio arrivarono degli uomini che lo minacciarono si bruciare il negozio se non avesse pagato mensilmente una somma. Per un po’ il malcapitato poté pagare, ma in seguito, per delle complicazioni, fu costretto a chiudere l’attività. D’altronde non era l’unico ad avere questo tipo di difficoltà, dopo la guerra molti commercianti come lui si trovavano nelle stesse condizioni e purtroppo dovette pagare degli arretrati, motivo per cui i creditori lo tormentarono a lungo. Il giorno dopo Zebra si svegliò, ancora pallido e scosso per le parole dei soverchiatori a cui avrebbe dovuto dare dei soldi che non aveva. Uscito di casa, vide molte persone in festa. Ovviamente Adam si domandò l’origine, a lui ignota, della felicità di tutta quella gente e posta la domanda a una donna che tutta gioiosa passava di lì, la risposta fu che grazie ad Adam era stato arrestato il boss mafioso con cui aveva il debito: un poliziotto aveva seguito i due uomini che avevano minacciato Adam e da essi era riuscito a risalire al loro capo, che era stato immediatamente assicurato alla giustizia.
3.Era buio ma riuscivo comunque a sentire l’odore di ferro che emanava dal sangue, dal corpo senza vita di Zebra. Non sapevo che fare, ero come paralizzata, sapevo che sarebbe successo.
È una splendida giornata di maggio, il sole splende e il suo colore si amalgama perfettamente con l’azzurro del cielo; ci saranno sì e no ventitré gradi -penso tra me e me- fa caldo, ma cerco di non pensarci. Sono appena uscita di casa per andare a Cavington (un paesino vicino a casa mia, sempre nei dintorni della California), raggiungibile a piedi.
Mentre mi incammino, inizio già a pensare a dove potrei pranzare; tiro fuori il telefono dalla borsa e vedo un messaggio da parte di Zebra: “Ti devo parlare, è urgente!”
Si chiamava Adam Zebrin, ma tutti lo conoscevamo col nome di Zebra. Adam era il direttore della Highflower, un’azienda agricola molto importante. La sua più grande rivale era l’Agriteck, un’altra azienda agricola che si era sempre mostrata molto invidiosa di Adam e della sua fama.
Zebra era un uomo modestamente alto, con il viso pallido, ma con una leggera nota di rosa sulle guance; aveva occhi verdi luminosissimi e un sorriso che rallegrava l’anima. Un uomo tenero, dolce, ma soprattutto altruista e che riusciva a farsi valere e a farsi rispettare anche con un semplice cenno del capo; quindi, in sintesi, un uomo di tutto rispetto.
Io sono stata per tanti anni sua cliente, per così tanti anni che siamo diventati amici e confidenti. Risposi al messaggio; ci incontrammo in un ristorante caldo e accogliente. Adam arrivò leggermente in ritardo, cosa non assolutamente da lui; lo vidi nervoso, guardava attentamente tutto il ristorante per assicurarsi che nessuno riuscisse a sentirci. L’Agriteck gli aveva rubato un’idea e l’aveva lanciata in commercio prima di lui. Zebra e tutto il suo team avevano inventato un fertilizzante che permettesse la crescita accelerata di piante e arbusti. Il prodotto doveva uscire sul mercato dopo poche settimane, ma l’Agriteck si era impossessata, in qualche modo, dei bozzetti del fertilizzante, così precedendo l’azienda rivale nel lancio del prodotto. Zebra era distrutto e io non sapevo come consolarlo; dopo aver finito di bere il suo bicchiere d’acqua riprese a parlare rapidamente: l’Agriteck e il suo direttore, Walter, lo avevano minacciato negando le loro responsabilità e costringendolo a non dire niente a nessuno. Pagammo e andammo via.
Quella fu l’ultima volta che lo vidi. Passarono interi giorni senza sue notizie, quindi iniziai a preoccuparmi e decisi che quella stessa sera di maggio sarei andata a casa sua per fargli visita.
La porta era semi aperta, così entrai senza bussare. Era tutto buio e non riuscivo a trovare il tasto per accendere la luce; perlustrai cautamente la casa fino a quando sentì odore di sangue: c’era un corpo accanto a me, non esitai neanche un secondo, mi avvicinai alla bocca dell’ignoto per controllare se respirasse ancora; era morto. Mi resi immediatamente conto che era Zebra, il mio amico di tutta una vita. Il mio cuore si fermò per un istante. Era stato Walter? Cosa aveva rivelato Zebra sul furto del fertilizzante e chi erano i complici?
L'Ira di Vesuvia
Vesuvia era una fanciulla molto carina; viveva con la sua famiglia a Pompei. Era considerata la ragazza più bella del paese e di questo era molto fiera. Aveva i capelli rossi e mossi, le lentiggini e dei bellissimi occhi blu in cui era facile perdersi, però aveva un difetto, si arrabbiava troppo, era molto permalosa.
Sua madre si ricordava ancora di quando la figlia si adirò solo perché per sbaglio le avevano calpestato un piede. Secondo la mamma Vesuvia era una figlia perfetta, ma quel difetto stava diventando un fardello molto pesante per la sua famiglia. Per questo la mamma andò dal fabbro della città; questo le diede un braccialetto magico; Aveva il potere di calmare Vesuvia anche nei momenti peggiori.
Mesi dopo in città arrivò una ragazza di nome Lucrezia; ella era molto simpatica e era apprezzata da tutti tranne che da Vesuvia. Non andavano d’accordo perché da quando Lucrezia era arrivata in città Vesuvia riceveva meno attenzioni. Così un giorno andò da lei per chiarire la situazione, ma nella foga il braccialetto si staccò e Vesuvia impazzì. Iniziò ad urlare e a sbattere violentemente i piedi a terra, si voltò e vide Lucrezia mano nella mano con il ragazzo che tanto le piaceva. La situazione provocò in lei una reazione mai vista prima. Vesuvia diventò gigante, poi iniziò a trasformarsi in una montagna, si sentì un ultimo grido e poi il silenzio.Dalla montagna, però, usciva uno strano fumo che non lasciava presagire nulla di buono. Infatti, poche ore dopo ci fu un’esplosione di fuoco che distrusse Pompei e uccise tutti gli abitanti. Ancora adesso i segni dell’eruzione sono visibili: tra i corpi ricoperti di lava solidificata c’è la madre che tiene in mano il braccialetto della figlia, che con la sua ira causò una delle catastrofi più famose della storia.
Sua madre si ricordava ancora di quando la figlia si adirò solo perché per sbaglio le avevano calpestato un piede. Secondo la mamma Vesuvia era una figlia perfetta, ma quel difetto stava diventando un fardello molto pesante per la sua famiglia. Per questo la mamma andò dal fabbro della città; questo le diede un braccialetto magico; Aveva il potere di calmare Vesuvia anche nei momenti peggiori.
Mesi dopo in città arrivò una ragazza di nome Lucrezia; ella era molto simpatica e era apprezzata da tutti tranne che da Vesuvia. Non andavano d’accordo perché da quando Lucrezia era arrivata in città Vesuvia riceveva meno attenzioni. Così un giorno andò da lei per chiarire la situazione, ma nella foga il braccialetto si staccò e Vesuvia impazzì. Iniziò ad urlare e a sbattere violentemente i piedi a terra, si voltò e vide Lucrezia mano nella mano con il ragazzo che tanto le piaceva. La situazione provocò in lei una reazione mai vista prima. Vesuvia diventò gigante, poi iniziò a trasformarsi in una montagna, si sentì un ultimo grido e poi il silenzio.Dalla montagna, però, usciva uno strano fumo che non lasciava presagire nulla di buono. Infatti, poche ore dopo ci fu un’esplosione di fuoco che distrusse Pompei e uccise tutti gli abitanti. Ancora adesso i segni dell’eruzione sono visibili: tra i corpi ricoperti di lava solidificata c’è la madre che tiene in mano il braccialetto della figlia, che con la sua ira causò una delle catastrofi più famose della storia.
Una nuova vita
Era un giorno come gli altri. Non appena sentimmo che la porta di casa si chiudeva, ci risvegliammo come da un sonno profondo. Era molto buio. Da fuori la nostra casa poteva anche sembrare un triste e cupo vecchio scatolone di giochi, ma dentro era tutto un'altra cosa. Tralasciando uno strano odore di umidità, al quale oramai ci eravamo abituati, lo spazio non mancava; stavamo tutti molto comodi e larghi: le pareti e il pavimento erano spesse e nelle stagioni più fredde ci permettevano di stare al caldo. Sopra alle nostre teste avevamo pochissima luce; lo scatolone non veniva aperto da anni, ma potevamo intravedere qualche debole raggio di sole che colpiva lo scotch usato per chiudere il coperchio della scatola. Cosa ci fosse realmente intorno a noi era un mistero.
I giorni scorrevano veloci e le nostre vite, chiusi in quella scatola, iniziarono a diventare sempre più monotone e noiose. Una mattina ci mettemmo tutti in cerchio sul ruvido pavimento per discutere pacificamente: le giovani macchinine dipinte a mano e i Lego si chiedevano che fine avesse fatto il nostro proprietario con il quale si erano sempre divertiti. Toccò a me, uno dei più anziani rinchiuso là dentro, parlare: spiegai che, visti gli innumerevoli anni passati, il nostro proprietario era probabilmente diventato grande e non aveva più nessuna necessità di usarci; è il triste, e forse anche un po’ ingiusto, destino che prima o poi spetta ad ogni giocattolo. Non appena finii di parlare, però, una porta vicina a noi si aprì; sentimmo dei passi pesanti farsi sempre più vicini: tutti rimasero immobili, poi uno, strano senso di vertigini mi colpì. Qualcuno ci aveva sollevati e adesso stava uscendo di casa con il nostro scatolone in mano. Il baule si chiuse e il senso di vertigini svanì, poi rombò il motore di un’auto. Successivamente fummo imbarcati in quello, che dai rumori percepiti mi parve un aeroporto. Il viaggio in aereo fu elettrizzante, era la prima volta che volavo. Durante il tragitto ripensai al Natale in cui i genitori del mio padroncino mi avevano portato in quella casa e al modo in cui mi aveva abbracciato che mi aveva reso l’orsacchiotto più felice al mondo. Atterrammo bruscamente; un altro breve viaggio in macchina e poi delle urla di bambini ci riaccesero l’anima.
Lo scatolone venne aperto. La luce del sole cocente mi accecò: man mano tutti i giochi intorno a me, ricaduti nel loro sonno profondo, furono afferrati da piccole mani di pelle nera. Diedi un ultimo sguardo a quello scatolone, quando come un uccellino che impara a volare e abbandona il nido, venni afferrato anche io. Capimmo di trovarci in Africa e di essere il motivo del sorriso sui volti di tutti quei bambini, che ci avevano afferrato.
I giorni scorrevano veloci e le nostre vite, chiusi in quella scatola, iniziarono a diventare sempre più monotone e noiose. Una mattina ci mettemmo tutti in cerchio sul ruvido pavimento per discutere pacificamente: le giovani macchinine dipinte a mano e i Lego si chiedevano che fine avesse fatto il nostro proprietario con il quale si erano sempre divertiti. Toccò a me, uno dei più anziani rinchiuso là dentro, parlare: spiegai che, visti gli innumerevoli anni passati, il nostro proprietario era probabilmente diventato grande e non aveva più nessuna necessità di usarci; è il triste, e forse anche un po’ ingiusto, destino che prima o poi spetta ad ogni giocattolo. Non appena finii di parlare, però, una porta vicina a noi si aprì; sentimmo dei passi pesanti farsi sempre più vicini: tutti rimasero immobili, poi uno, strano senso di vertigini mi colpì. Qualcuno ci aveva sollevati e adesso stava uscendo di casa con il nostro scatolone in mano. Il baule si chiuse e il senso di vertigini svanì, poi rombò il motore di un’auto. Successivamente fummo imbarcati in quello, che dai rumori percepiti mi parve un aeroporto. Il viaggio in aereo fu elettrizzante, era la prima volta che volavo. Durante il tragitto ripensai al Natale in cui i genitori del mio padroncino mi avevano portato in quella casa e al modo in cui mi aveva abbracciato che mi aveva reso l’orsacchiotto più felice al mondo. Atterrammo bruscamente; un altro breve viaggio in macchina e poi delle urla di bambini ci riaccesero l’anima.
Lo scatolone venne aperto. La luce del sole cocente mi accecò: man mano tutti i giochi intorno a me, ricaduti nel loro sonno profondo, furono afferrati da piccole mani di pelle nera. Diedi un ultimo sguardo a quello scatolone, quando come un uccellino che impara a volare e abbandona il nido, venni afferrato anche io. Capimmo di trovarci in Africa e di essere il motivo del sorriso sui volti di tutti quei bambini, che ci avevano afferrato.